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Se il Nobel si stupisce dell'ibrido post-sovietico


Le etichette si sprecano nel tentativo di definire le diverse affiliazioni culturali, storiche e politiche della scrittrice Svjatlana Aljaksandrauna (in bielorusso) / Svetlana Aleksandrovna (in russo) Aleksievič (n. 1948), vincitrice del Premio Nobel per la letteratura. (Post-)Sovietica, per bagaglio storico-culturale. Bielorussa, in accordo alla sua cittadinanza. Ucraina, per esser nata nella Stanislav d’età sovietica, l’odierna Ivano-Frankivs’k. Russa (o russofona) per lingua e strumenti artistico-letterari. Di certo, sappiamo che si tratta del primo autore di lingua russa a vincere il premio dal 1987. A ventisette anni di distanza da Iosif Brodskij, apolide esistenziale per eccellenza, che, in occasione del conferimento del Premio, si rivolse proprio alle ‘ombre’ che inquietavano il suo peregrinare artistico-culturale e il cui “numero è grande e decisivo nell’esistenza di ogni uomo di lettere consapevole”. Forse è proprio il dialogo con una ‘collettività’, intesa tanto in termini letterari quanto generazionali, ad essere l’unico collante tra due autori separati da dimensioni estetiche antitetiche e da differenti percezioni storiche. “Per le sue opere polifoniche, un monumento alla sofferenza e al coraggio nella nostra epoca”: così viene motivata la scelta della commissione nella nota ufficiale dell’Accademia svedese.


La breve giustificazione che accompagna l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura del 2015 si rivela essere un utile viatico per comprendere il valore attribuito oggi alla prosa documentaria di Aleksievič. In primo luogo, a chi rimanda la ‘polifonia’ di voci cui si fa riferimento? Quale collettività trova la propria espressione letteraria nelle opere dell’autrice? Secondo le parole di Aleksievič, ospite di recente al ‘Festivaletteratura’ di Mantova e alla rassegna di Internazionale a Ferrara, la “cultura del racconto”, intesa come sublimazione del dolore, è parte integrante della “tradizione e della vita russa”. In questo senso, Aleksievič si definisce una scrittrice-giornalista. Le sue opere sono contenitori di testimonianze, frutto del recupero di relitti culturali e storici in forma letteraria. Relitti della transizione post-sovietica, di una storia non ancora digerita. Il loro dolore diventa così riflesso del processo di autoanalisi della società e della cultura contemporanee. Si tratta di una generazione di passaggio, che vive nella necessità di ritrovare quel continuum temporale, nonché spaziale, della propria esistenza. Le parole contenute nella postfazione all’edizione italiana di "Churramabad" (Jaca book, 2013) di Andrej Volos, altro scrittore proveniente dalla stratificata costellazione post-sovietica, ci consentono di inquadrare meglio la dimensione di questa frattura storica ancora da ricucire: “Alla fine degli anni Ottanta del XX secolo tutto era ancora semplice e comprensibile. Sulle carte politiche degli atlanti una grande porzione del pianeta figurava uniformemente colorata di rosso. Era il monolitico ‘paese del socialismo vittorioso, uno e indivisibile, l’Unione sovietica. E ad un tratto l’immensa nazione aveva cominciato a sfilacciarsi in brandelli multicolori…”.

Nel caso di Aleksievič, a ‘sfilacciarsi’ sono anche le proprie radici culturali. Ne sono testimonianza le contrastanti ricezioni delle sue opere all’interno di quei ‘brandelli multicolori’ nati dallo scioglimento dell’URSS. In Bielorussia, dove la scrittrice è tornata a vivere dopo un esilio volontario durato una decina di anni, sono in molti a condannarla per l’utilizzo della lingua russa: ‘Solo ciò che è scritto in bielorusso può appartenere alla letteratura nazionale’. Alcuni la accusano di aver scarsa considerazione per le tradizioni nazionali, definite dall’autrice in una contestata intervista per il Frankfurter Allgemeine Zeitung del giugno 2013 come ‘rurali ed acerbe a livello letterario’. Il fatto stesso che le sue opere si rivolgano principalmente al passato sovietico della Bielorussia piuttosto che alla sua storia di paese indipendente non fa altro che rafforzare la convinzione, nutrita da molti nel suo paese, che Svetlana Aleksievič rappresenti qualcosa di alieno, diventando anch’essa un relitto di quella stessa Unione Sovietica oggetto delle sue ricerche. Il giornalista ucraino Vitalij Portnikov, in un articolo pubblicato sul portale grani.ru, evidenzia come la questione trovi le sue radici nella “nostra incapacità di spostare le frontiere culturali”. Per Portnikov, Svetlana Aleksievič è una scrittrice bielorussa “nella stessa misura in cui Joyce e Yates sono scrittori irlandesi, Mark Twain ed Hemingway sono americani, Garcia Marquez è colombiano, e Vargas Llosa è peruviano”. Secondo il critico ucraino, “nel mondo contemporaneo l’appartenenza di uno scrittore non è determinata dalla lingua, ma dalla scelta di civiltà”. Nel corso di una conferenza stampa organizzata l’otto ottobre presso la redazione del quotidiano bielorusso ‘Naša Niva’, la scrittrice si è difesa dalle accuse, cercando di ricomporre le sue diverse radici: “Alcune persone in Bielorussia pensano che io odi il popolo bielorusso: non solo la classe al potere, ma anche il popolo. Penso che a nessuno piaccia la verità. Dico quello che penso. Amo sia il popolo russo che quello bielorusso. I miei parenti da parte di padre erano bielorussi, ed anche il mio amato nonno…Allo stesso tempo mia nonna, mia madre, sono ucraine. Io amo molto l’Ucraina. E quando non molto tempo fa sono stata a Maidan ed ho visto le foto della ‘Centuria celeste’ (i.e. le vittime degli scontri nella piazza dell’Indipendenza di Kiev), mi sono fermata e ho pianto. Anche quella è la mia terra”. D’altro canto, in Russia, il noto autore Zachar Prilepin la definisce una scrittrice “alla moda”, che si trova nella sua posizione solo per le sue opinioni dichiaratamente contrarie alle ‘politiche militaresche’ della Federazione. Secondo Prilepin, la situazione politica attuale dà all’autrice una certa popolarità, ed è solo per motivazioni puramente extra-letterarie che ai russi “non viene assegnato da molto tempo il Premio Nobel”. Le affermazioni dell’autore di “Patologie” (Voland, 2011) ci riportano ad un’altra questione utile per comprendere le sottili sfumature che accompagnano l’attribuzione del premio ad Aleksievič: il ruolo del mercato letterario occidentale.

Se le opere dell’autrice bielorussa possono ancora trovare una certa difficoltà ad affermarsi nei mercati locali, dove è stata messa al bando per lungo tempo, è proprio ad Occidente che la scrittrice ha trovato il grande pubblico. Tradotta in più di 40 lingue, l’autrice è diventata agli occhi della platea occidentale il nuovo simbolo della dissidenza liberale. Per di più, l’annuncio della sua premiazione ha seguito di un solo giorno la celebrazione del nono anniversario dalla morte di Anna Stepanovna Politkovskaja, nonché il 63esimo compleanno di uno degli obiettivi delle sue inchieste, il presidente russo Vladimir Putin. Agli occhi degli osservatori occidentali, il rimando a queste due figure emblematiche della Russia contemporanea non può che richiamare alla mente un altro grande successo letterario degli ultimi anni, quel ‘Limonov’ dello scrittore francese Emmanuel Carrère. A mio modo di vedere, il parallelo non è azzardato proprio perché ci consente di giudicare le tendenze e i gusti del pubblico occidentale contemporaneo, quando volge il suo sguardo ad Est. Inoltre, la predilezione per un genere classificabile sotto la grande etichetta di ‘non-fiction’, come evidenziato dallo stesso Prilepin in una recente intervista, è un fenomeno di marca occidentale: la mescolanza di elementi di fiction e realtà dà vita a nuovi generi letterari ibridi, in bilico tra documento storico e finzione. Si tratta di un procedimento nuovo e ‘necessario’ di riformulazione del ‘reale’, come sottolinea Christian Raimo, di cui anche Aleksevič nelle sue opere si fa a suo modo interprete: “Per la nostra generazione, il mondo intero sembra presentarsi come “familiare”, ma dato che questa è ovviamente un’illusione per quel che riguarda tutti gli aspetti più importanti degli individui, forse il compito di ogni forma di letteratura “realistica” è l’opposto di quello che era un tempo: non più rendere familiare ciò che è strano ma rendere di nuovo strano ciò che è familiare”.

Nel suo contributo per “The New Yorker”, Masha Gessen sottolinea come l’Accademia Svedese abbia letto nella produzione della vincitrice “l’invenzione di ‘un nuovo genere letterario’, “una storia di emozioni, una storia dell’anima”. Ricomponendo i tasselli dell’esistenza dell’ ‘homo sovieticus’, Svetlana Aleksievič riesce nuovamente a ‘meravigliarci’. Si tratta di un’operazione utile tanto al percorso di autocoscienza dei popoli separati dalla frattura sovietica, impacciati nei loro ancora ‘imperfetti’ abiti nazionali, quanto all’Occidente, ancora incapace di comprendere le differenti direttrici dei percorsi intrapresi dal suo stesso ‘Oriente’. A quasi quindici anni di distanza dalla caduta dell’URSS, sembra forse la letteratura a poterci ricondurre all’interno di un nuovo percorso di senso nel tentativo di comprendere l’ ‘Altra Europa’, andando oltre la semplice dialettica Est/Ovest. I diversi volti nazionali (e sovranazionali) di Svjatlana/Svetlana Aleksievič sembrano anch’essi esprimere la necessità di un superamento delle frontiere temporali e spaziali del nostro tempo, diventando un nuovo strumento di testualizzazione per il ritrovamento di un (auspicabile) senso di ‘collettività europea’.

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