top of page

Ivan Ivanovych di Mykola Chvyl'ovyj: una storia per Sherlock Holmes

Ivan Ivanovyč è un racconto satirico di Mykola Chvyl’ovyj pubblicato nel 1929. Scritto in terza persona da un narratore partecipe che dialoga con il lettore, descrive in tono ironicamente favolistico l’esistenza quotidiana di Ivan Ivanovyč, rivoluzionario membro di partito negli anni del pieno sviluppo della Nuova Politica Economica. Ivan ha una moglie e due figli, vive in una bella casa in un borgo di provincia e frequenta gli amici e i colleghi di partito.


I temi che Chvyl’ovyj prende in considerazione sono due: l’esistenza di Ivan nel suo quotidiano succedersi e l’ideologia sovietica che ne regola i comportamenti. Il primo tema è sviluppato in termini parodici tramite l’artificio della giustapposizione del presente sovietico al passato zarista, così da illuminarne le analogie. Alla satira si affianca un sottotesto tragico, vero protagonista del racconto, che può leggersi come un’amara riflessione sull’infrangersi di un sogno (“il popolo rivoluzionario non ha vinto”). Dell’ ideologia sovietica, il secondo tema sviluppato, l’autore mette in luce “l’incompiutezza e le miserie” utilizzando la forma narrativa del conte philosophique. Fondamentale è la presenza di una fitta rete di rimandi intertestuali ad autori e opere che, oltre a qualificare il testo come un esempio di letteratura “alta”, ne fanno emergere l’autentico significato letterario.


Procedendo per macro-gruppi letterari, si può dire che la biblioteca di riferimento di Chvyl’ovyj è composta, in primis, da tre grandi opere satiriche: "Gargantua e Pantagruele" di Rabelais, i "Viaggi di Gulliver" di Swift e "Candido o L’ottimismo" di Voltaire, una “triade spirituale” che costituisce l’asse portante dell’intertestualità di Ivan Ivanovyč. Oltre a questi tre “maestri”, Chvyl’ovyj richiama anche l’umanista Tommaso Moro con "Utopia" e lo scrittore-polemista Thackeray. Dell’autore de "Le memorie di Barry Lyndon" viene richiamato, in particolare, un saggio sugli umoristi inglesi settecenteschi che, come vedremo più avanti, Chvyl’ovyj utilizza come spunto per un’originale digressione metasatirica.


Importanti riferimenti sono anche quelli al romanzo francese, specificamente al "Bel Ami" di Maupassant e a "La Certosa di Parma" di Stendhal. La letteratura russa è presente con Gogol’ e Saltykov-Ščedrin per quanto riguarda l’epoca zarista, e con due romanzi di Ehrenburg per quanto concerne la realtà sovietica coeva. Un rimando particolare, che è possibile ravvedere anche in altre opere di Chvyl’ovyj, è quello riservato ad alcuni testi del Marchese de Sade.


La colta intertestualità, così come la complessità intellettuale dei numerosi riferimenti politici e culturali, senza dubbio fanno di Ivan Ivanovyč un esempio di letteratura “alta”. Quello della creazione di una letteratura “alta” era, d’altra parte, la missione del Modernismo ucraino e la via ("Quo vadis?") indicata dallo stesso Chvyl’ovyj durante il Dibattito letterario degli anni ’20, in contrapposizione all’orientamento “popolare” e utilitarista della scuola realista. Seguendo la via modernista, pensata per un pubblico urbano, si sarebbe potuto ribaltare lo status di cultura “bassa” che la narrazione imperiale aveva sempre attribuito alla letteratura ucraina. Il racconto Ivan Ivanovyč è da considerarsi a buon diritto un testo pienamente modernista. Esso regala al lettore numerose tracce per esplorazioni letterarie autonome. La trama intertestuale può infatti essere utilizzata come un indizio per scoprire il messaggio del testo, il suo autentico significato letterario. Usando una metafora “investigativa”, si può dire che il racconto di Chvyl’ovyj si configura come “una storia per Sherlock Holmes”.


Ai tempi dello zar, Ivan Ivanovyč - “il mio simpatico eroe” lo chiama Chvyl’ovyj - era un rivoluzionario: amava Rabelais e i "Viaggi di Gulliver" e fu cacciato dalla facoltà di Giurisprudenza per voltairianesimo. Nel frattempo Ivan è cambiato: è diventato il compagno “Jean” e un membro esemplare sia del partito che del “nuovo vivere comunista”. In modo colto e divertente Chvyl’ovyj apre una finestra sul passato, che è quello nobiliare e zarista, mettendone in luce il trasferimento nel presente (“maledetta eredità dello zarismo!”). Il ritratto chvyl’ovyiano della cerchia familiare del “compagno Jean”, del linguaggio, dei comportamenti, fin dei più piccoli gesti (“il compagno Jean si deterge la fronte alta con un fazzoletto bianco candido”), evoca quello di un interno borghese da romanzo ottocentesco. Ci sono la “padrona di casa”, la compagna Halakta-Marfa Halaktionivna che “si sistema la scollatura e socchiude sapientemente i suoi occhi comprensivi”, e “l’amico di casa”, Metodij Kyrylovyč, con l’opportuno baciamano. Tra i due intercorre una neppur troppo velata liaison, tacitamente accettata da Ivan, il cui intreccio rimanda ai ménage à trois di Georges Duroy, il Bel Ami dell’omonimo romanzo di Maupassant. Delle sue amanti, infatti, l’eroe maupassantiano frequenta le case e i mariti, i quali, analogamente al nostro Ivan, tollerano tacitamente la situazione, oppure semplicemente non se ne curano. Ci sono anche due figli, che hanno nomi “rivoluzionari”: Maggio, iscritto agli Ottobrini, e Violetta, di romantica memoria, ancora candidata. Completano il quadro una governante, ça va sans dire francese, e una cuoca che dorme su un materasso in corridoio. Il salario di Ivan è di “soli” 250 rubli, “se non si contano varie piccolezze, come straordinari, aumenti e l’onorario regolare…per articoli compilativi”.


Non è difficile capire che Ivan guadagna molto. Porta occhiali di corno, non indossa abiti di poco prezzo, trascorre le vacanze al mare in Crimea o alle terme nel Caucaso, vive in un elegante appartamento borghese di ampia metratura (“Quattro stanze (“solo!”) senza contare cucina, bagno, toilette”), scampato alla inventariazione degli spazi che avrebbe dovuto riguardare tutti i cittadini sovietici. Anche la via dove abita non è più la stessa. Ex “Via del Governatore”, adesso è “Via Thomas Moore”, allusione (forse volutamente ambigua?) all’autore di Utopia. E così in città, “sfrecciano taxi gagliardi”, à la Marinetti, non “vi si trascinano più tristi vetturini antidiluviani”.


Bersaglio della satira chvyl’ovyiana è anche, in senso stretto, il paradigma “monumental-materialista” del “nuovo vivere comunista”, declinato in tratti peculiari che l’autore descrive magistralmente nella forma di vivaci gag. Ci sono le associazioni benefiche, sciorinate da Ivan con orgoglioso senso di appartenenza, la NEP (le nepmanky fanno spesso la manicure) e il regime di economia, presentato da un funzionario di partito ad una platea attonita come “uno degli ultimi slogan di battaglia” e spiegato ricorrendo all’ esilarante esempio della matita e del temperino: “in regime di economia…non si sarebbe dovuto buttare via questa matita nel cestino, ma comprare un temperamatite da due copeche ed utilizzare la matita fino alla fine”. E ancora, nel testo si parla della crisi degli alloggi (“s’era fatta sentire e il mio eroe le era andato spontaneamente incontro”) e delle requisizioni. Non mancano riferimenti alla luce elettrica e alle invenzioni tecnologiche come metafore del comunismo (à la Zoščenko: “qual è, compagni, la parola all’ordine del giorno? E’ elettrificazione”) e alla differenza tra socialismo e comunismo (“il comunismo è una forma superiore”). Sono anche presenti questioni complesse e all’epoca molto dibattute, quali l’autocritica di partito, l’estetica di Plechanov e la teoria del socialismo in un unico paese, oltre ad aspetti squisitamente psicologici come la pervasiva paura dei funzionari di partito di cadere nella trappola della macchinazione e di essere epurati.


Quella di Chvyl’ovyj è satira “alta”, che segue uno stile che viene mantenuto per tutto il testo. A tal proposito sembra essere calzante la definizione di satira che propone Eco: “testimonianza d'affetto e di fiducia, giustiziera, veleno e medicina a un tempo, forse un serio e responsabile dovere intellettuale”. È senz’altro vero che Chvyl’ovyj “ride dal di dentro”, con empatia (la vita del “suo eroe” è “commovente”, le sue invenzioni “trovate”, la sua fine “tragica”) e che, nel disincanto, riesce ad essere fiducioso (“tutto è possibile”, “sta nascendo il simpatico bambino di Ivan”). Oltre ad essere “alta”, la satira chvyl’ovyiana è colta e di natura squisitamente intertestuale; del testo colpisce la ‘particolare apertura’, che si esprime nel ricorso a forme differenti di intertestualità: dai semplici riferimenti e citazioni dirette, al pastiche raffinato intorno a varie letterature, fino al rimando concatenato ad un gruppo omogeneo di testi. Si può dire che l’intertestualità di Chvyl’ovyj assolva ad una duplice funzione: da un lato suggerisce la sua collocazione letteraria e spirituale al lettore e, dall’ altro, gli consente di dotarsi di un repertorio di linguaggi tipizzati funzionali all’intento satirico.


Sono frequenti i pastiches intorno a "La Certosa di Parma" di Stendhal, che gioca la parte del linguaggio cancelleresco (“à la Stendhal”). I personaggi del romanzo stendhaliano, ambientato in una fittizia corte parmense dopo Waterloo, si comportano in “maniera cortigiana” e si esprimono attraverso un linguaggio burocratico e affettatamente cerimonioso, sullo sfondo di un ambiente fatto di intrighi e carta bollata. Nelle pagine del romanzo, la maniera cancelleresca è talmente intensa e diffusa al punto di sostituirsi progressivamente alla trama, oscurandola, e diventare la vera protagonista. Le vicende narrate nel testo stendhaliano si ripetono uguali l’une alle altre, modulate da un burocratico e rigido paradigma cortigiano, fino ad arrivare a non esprimere più nulla se non un indistinto e inconcludente “menare il can per l’aia”. Il linguaggio della Certosa è il mezzo di cui si serve Chvyl’ovyj per parlare esopicamente di quella che potremmo definire la “gigantesca cancelleria sovietica”, che richiede ai suoi membri subordinazione e coerenza a tesi e parole d’ordine che finiscono per sostituirsi al libero pensiero e alla spontaneità : “la tristezza… che spinge le persone… ad azioni molto poco coerenti (per esempio, costringe a non essere d’accordo sul fatto che nella nostra società la satira non abbia un suo posto)” dice, per esempio, il narratore Chvyl’ovyj partendo da un commento pretestuoso sulla tristezza che porta con sé la sottile pioggia autunnale.


Numerosi e sofisticati sono i pastiches intorno a Maupassant: se Stendhal rappresenta il “linguaggio cancelleresco” del racconto, l’autore di Bel Ami viene a identificarsi con il “linguaggio borghese” del testo, che nelle mani di Chvyl’ovyj diventa uno strumento utile a illuminare le mollezze del “nuovo vivere comunista”. La scena del racconto in cui Marfa Halaktionivna e Metodij Kyrylovyč siedono insieme in salotto ricorda certi “ritratti d’interno” ottocenteschi, con Metodij Kyrylovyč nella parte di Bel Ami e Marfa Halaktionivna in quella della coquette che “si siede a leggere Lenin e Marx, ma la mano tende a Maupassant, quando entra nella stanza un venticello primaverile così gradevole, ma decisamente non subordinato alla teoria monumental-realistica, che si mette a fare il fesso con la sua scollatura”. E ancora, il giornale ucraino di partito "Visti" è descritto con parole simili a quelle usate dall’ eroe maupassantiano per descrivere il quotidiano parigino "Vie Française". Dell’autore francese, non solo Chvyl’ovyj ha imitato lo stile, peraltro con esiti felici, ma con il romanzo "Le Beccacce" ("Val’dšnepy", 1927) anche un titolo, quello di una raccolta di novelle del 1883, i "Racconti della beccaccia". Se Maupassant riflette il “linguaggio borghese” della parola chvyl’ovyiana, Ehrenburg ne rappresenta il “linguaggio maggioritario” (“la compagna Halakta sa controllarsi, legge solo romanzi come “Julio Jurenito” con l’introduzione di Bucharin e “L’amore di Žanna Nej”).


Determinante per illuminare l’autentico significato del racconto è il rimando ad un gruppo di testi uniti da una serie di caratteristiche comuni, ciò che Genette definisce “architestualità”. In Ivan Ivanovyč l’elemento architestuale è rappresentato dal “libero pensiero”, il tratto cognitivo e spirituale che appartiene ai tre grandi pensatori richiamati nelle pagine del racconto con intonazione significativamente mistica: Rabelais, definito “il padre”; Swift, “una Bibbia alla destra del padre”, e infine Voltaire, uno “sguardo”, lo Spirito - o meglio, l’esprit - di questa ideale “Trinità”. "Gargantua e Pantagruele", i "Viaggi di Gulliver" e "Candido" costituiscono il cuore di quella che potremmo chiamare la “biblioteca libertina” di Chvyl’ovyj e rappresentano anche un’inequivocabile indicazione della sua collocazione letteraria e, soprattutto, spirituale. Le metafore che Chvyl’ovyj sparpaglia nel testo per richiamare i tre autori sono, infatti, di “natura spirituale” e, prese nel loro insieme, rappresentano questa triade letteraria come una “Santa Trinità”.


Il libero pensiero pare assumere per l’autore di Ivan Ivanovyč la portata e la forza di una fede, oltre ad essere una delle fonti letterarie “alte” cui attingere. Accennando al passato letterario e allo smarrimento di Ivan (“aveva promesso di fare, in caso di vittoria del popolo rivoluzionario, dei Viaggi di Gulliver una Bibbia e avrebbe messo quel libro alla destra di Rabelais”), l’autore, già nelle prime righe, lascia intendere il vero tema: la disillusione rispetto al “suo” sogno comunista, rispetto al “suo Ivan”. La perdita di quello che Chvyl’ovyj chiama lo “sguardo voltairiano”, il non avere messo i "Viaggi di Gulliver" alla destra di Rabelais, ci parlano di un sogno “infranto” che si concretizza nella normalizzazione della Rivoluzione e nella fine della forza del libero pensiero. Chvyl’ovyj ricorre ad una “controfigura”, lo scrittore Thackeray, adattandone esopicamente un commento sull’immensità del genio di Swift: “An immense genius: an awful downfall and ruin. So great a man he seems to me, that thinking of him is like thinking of an empire falling…”. Nella versione esopica di Chvyl’ovyj, che si dichiara d’accordo con Thackeray, Saltykov-Ščedrin “prende il posto” di Swift, e il grande Impero diventa quello russo.


Pertanto, la digressione metasatirica che ne consegue riguarda il “posto” della satira nella storia russa. L’autore del capolavoro assoluto "I signori Golovlev" (1880), continua Chvyl’ovyj tra le righe, è riuscito ad esprimere il suo pensiero nella Russia zarista - fu persino nominato Vice Governatore - mentre lui, nella “Repubblica Sovietica”, dove il libero pensiero avrebbe dovuto essere una Bibbia, ha dovuto scrivere una “novella maggioritaria” per farsi “leggere da tutti i cittadini della nostra Repubblica”. Da questo punto di vista, la fitta trama intertestuale del racconto aiuta a rivelare la natura autenticamente “minoritaria” - ed elitaria - della novella di Chvyl’ovyj.


La maniera swiftiana e voltairiana è ripresa da Chvyl’ovyj nella parodia dello spirito tecnologico del “nuovo vivere comunista” (elettrificazione, invenzioni prodigiose), che vede Ivan impegnarsi “anima e corpo” nella costruzione di un ammazzamosche, va da sé, elettrico. Caricatura brillante, il pezzo sull’ “ammazzamosche” ci porta dentro all’empirismo sfrenato del secolo dei Lumi, rivisitandone le sperimentazioni dei gabinetti scientifici (il vento elettrico, la bottiglia di Leida, la ruota di Franklin, la prova della rana di Galvani), che Ivan può replicare a casa, dal momento che possiede tutta una biblioteca scientifica requisita ad un qualche proprietario terriero. Lo studio che Ivan intraprende delle “varie discipline”, l’impegno sproporzionato rispetto al risultato e lo “spirito di servizio” (“per tutto l’inverno si ruppe la testa con abnegazione”) rimandano al “culto” settecentesco della fisica sperimentale parodiato da Swift e Voltaire. Ivan “lavoratore scientifico operante sulla propria invenzione” evoca i costruttori di strumenti degli ateliers dell’Olanda settecentesca, ma anche gli “uffiziali” e la “Mateotecnia” (“scienza vana”) del reame della “Quinta Essenza” di Rabelais. Occupati in attività di “scienza vana”, gli “uffiziali” sprecano le loro fatiche: “da quattro giorni avevano cominciato a discutere per decidere se un pelo di capra fosse di lana”, oppure “facevano cose grandi dal nulla e al nulla facevano cose grandi ritornare”. La scenetta su “Ivan inventore” ci porta a pensare ad un’ideale “Accademia Sovietica delle Invenzioni”, eco dell’“Accademia di Lagado” dei "Viaggi di Gulliver", parodia della Royal Society, ma anche dell’ “Accademia delle Scienze di Bordeaux” caricaturata nel Candido. Il cosiddetto “artista universale” dell’Accademia swiftiana, che conta non meno di cinquecento stanze ciascuna occupata da uno o più progettisti, fa sapere a Gulliver che “da 30 anni consacrava i suoi pensieri al miglioramento della vita umana”. Con questo obiettivo alcuni dei suoi cinquanta assistenti “ammorbidivano il marmo per farne cuscini e portaspilli” e altri “pietrificavano gli zoccoli di un cavallo vivo per impedirgli di azzopparsi”. Si pensi anche all’eroe voltairiano che capita nella città di Bordeaux e lascia in custodia un montone all’ Accademia delle Scienze la quale, ironizza il narratore, “propose di dare quell’anno il premio a chi avesse scoperto perché la lana di quel montone fosse rossa”. Voltairiana è anche la forma del racconto, che ricorda quella del conte philosophique. Il pastiche di Chvyl’ovyj è di tipo positivo, nel senso inteso da Marmontel, l’illuminista amico di Voltaire: ovvero, è un pastiche admiratif intorno ad autori che si considerano “alti” e, pertanto, autori-scuola da imitare.


Seppur in maniera meno esplicita, la “biblioteca libertina” di Chvyl’ovyj include anche de Sade. Un’allusione all’autore de "La Nouvelle Justine" si incontra nella scena in cui Halatka e Metodij Kyrylovyč discutono sul tema dell’educazione sessuale. La discussione è portata avanti sul divano, suppellettile che fa pensare ad un boudoir settecentesco dove “si sistemano” Halakta e “l’amico di casa” (il Bel Ami) “e iniziano a discutere sul tema dell’educazione sessuale”. Dopo una serie di riluttanze e avvicinamenti i due passano ai fatti. Le espressioni linguistiche per introdurre il passaggio all’atto ricordano quelle dei testi di Maupassant, che solitamente si spinge oltre, laddove Chvyl’ovyj crea dissolvenza come in un film: “l’autore in questo momento, però, si allontana deciso dalla porta”. L’uscita di scena è anche un pretesto per un gioco polemico molto efficace che getta luce sul problema della censura sovietica. Il rimando a de Sade è un fine gioco sulla locuzione “educazione sessuale”. Per mezzo di un allusivo intreccio di premesse e conseguenze, di dettagli e accostamenti parlanti, “educazione sessuale” (tema di conversazione) diventa “educazione” sessuale (formazione). Il tono e lo spirito sembrano quelli - ma la nostra resta un’ipotesi - della "Philosophie dans le boudoir", testo di de Sade del 1795 sottotitolato "Dialoghi destinati all’educazione delle giovani fanciulle". “Ma, sa, vi sono ancora alcuni individui per i quali l’educazione sessuale è cosa buona e a tutt’oggi è un’incognita”, dice Marfa Halaktionivna a Metodij Kyrylovyč. E prosegue: “E lo dirò apertamente, senza tante superstizioni borghesi, che a me, di tanto in tanto, viene una gran voglia di accarezzare un altro uomo che lei nemmeno se lo immagina”. La scena è anche una ripresa del Candido voltairiano, laddove Cunegonda “molto portata per le scienze e tutta piena del desiderio di diventare sapiente”, dopo avere visto “il dottor Pangloss impartire una lezione di fisica sperimentale alla cameriera di sua madre”, si ritrova insieme a Candido in uno spazio separato (l’equivalente del boudoir), dietro ad un paravento, dove “le loro bocche si incontrarono, gli occhi fiammeggiarono, le ginocchia tremarono, le mani persero il controllo”. Non mi sembra casuale, a questo proposito, che la "Philosophie dans le boudoir" rappresenti un rimando assai potente nel romanzo "Le Beccacce", dove la riflessione sull’“etica come permanente crimine” rimanda al pamphlet "Francesi ancora uno sforzo se volete essere Repubblicani", posto in coda a "Philosophie dans le boudoir". Un sottotesto sadiano può rinvenirsi anche nel racconto "Io Romantica", del 1923, tragica riflessione sugli effetti della violenza rivoluzionaria sulla psiche dei singoli. Sadiana - o venata di allusioni sadiane - è l’idea del superamento del limite, spinto fino al matricidio finale, o delle fucilazioni fatte in serie come “baccanali”.


La presenza di un sottotesto sadiano-voltairiano illumina la collocazione letteraria e spirituale dell’autore all’interno di un ideale “filone libertino”, sul sentiero tracciato dagli esprits forts francesi e inglesi e dall’ “ultimo” russo Saltykov-Ščedrin. Il ponte che si crea con i polemisti liberi pensatori - a cui andrà aggiunto Tommaso Moro, citato sotto forma di nuovo nome per una via - riveste Ivan Ivanovyč di un nuovo significato, quello appunto, di testo satirico-libertino.


In conclusione, è interessante leggere Ivan Ivanovyč mettendolo sullo scaffale della biblioteca allargata di Chvyl’ovyj, quella che lui costruisce nel racconto nominando o suggerendo indirettamente autori e libri. Possiamo analizzare la biblioteca come una ‘mappa’, secondo gli assi spazio/tempo, che ci portano a tre paesi e tre periodi. Chvyl’ovyj attinge alla fonte dell’Umanesimo e dell’Illuminismo in Francia e Inghilterra e a quella del ritratto satirico ottocentesco in Francia e Russia. Tra le fonti letterarie europee sembra assente la Germania, non per mancanza di considerazione - sappiamo dai pamphlet polemici quanto fosse significativo per Chvyl’ovyj il "Faust" di Goethe, - ma perché non funzionale allo scopo di dare un significato satirico al testo. Lo stesso dovrà dirsi per gli altri autori che secondo Chvyl’ovyj definiscono la cultura europea non decadente (Byron, Darwin, Marx, Newton). Non dimentichiamo che la moglie di Ivan, Marfa Halaktionivna, “si siede a leggere Lenin e Marx, ma la mano tende a Maupassant”. Assente è anche la letteratura russa tra Gogol’ e Saltykov-Ščedrin, la cui caratteristica distintiva è secondo Chvyl’ovyj un pessimismo passivo che ha prodotto i tipi letterari dell’uomo superfluo, del piccolo uomo, del piagnucolone e del sognatore che, come si legge tra le pagine del saggio polemico "Ucraina o Piccola Russia?", sono opposti al tipo storico-culturale chvyl’ovyiano del “coraggioso conquistador”.


Si è avuto modo di osservare l’importanza dei riferimenti a Maupassant per la decodificazione del significato profondo del testo. Tuttavia, gran parte dello spazio di questa piccola biblioteca è occupato dal secolo dei Lumi, in particolare da Voltaire, “responsabile” della cacciata di Ivan dalla facoltà di Giurisprudenza per voltairianesimo e dello sguardo voltairiano. Cosa c’è di Voltaire in Chvyl’ovyj? A mio parere la conservazione dell’ottimismo nell’esercizio di un pensiero lucido, la vitalità, il coraggio della competizione e la fede nel valore estetico della cultura, più che in quello utilitaristico. Inoltre, come nel caso di Chvyl’ovyj e Gogol’, anche leggendo i contes philosophiques di Voltaire si ha l’impressione che l’autore si sia divertito a scriverli. Un sobrio ottimismo, malgrado tutto, traspare dai racconti di Chvyl’ovyj e fa parte della sua concezione non solo del mondo (osare, combattere, avere coraggio, amare la vita), ma anche della letteratura. Si pensi a questo proposito alla vitalità del tipo letterario chvyl’ovyiano del “coraggioso conquistador”, in cui è ravvisabile il mito della frontiera, oppure alla definizione di “vitalismo romantico” che lo stesso Chvyl’ovyj propose per il suo stile. “Cento volte ho desiderato di uccidermi, ma continuavo ad amare la vita” scrive Voltaire nel Candido. “Oggi è una bellissima giornata di sole. Amo la vita, non immaginate quanto”, scrisse Chvyl’ovyj nella nota lasciata prima di suicidarsi, il 13 maggio 1933. La lotta, quella del polemista, fa parte della vita di Chvyl’ovyj, così come di quella di Voltaire, due grandi “lottatori” che non potevano fare a meno di esercitare lo spirito critico di un pensiero intellettualmente autonomo. Voltaire, nel "Candido", fa dire al senatore Pococurante: “Del resto, dico ciò che penso, e mi interessa assai poco che altri la pensino come me”. “Ed io, tuttavia, insisto sulle mie posizioni! - Perché mai vuoi che io la pensi necessariamente secondo il volgo?” dice “risoluto” Ivan Ivanovyč. Anche la cultura “alta”, dalle fonti universali, classiche e umaniste, è propria ad entrambi i polemisti, così come la concezione di una letteratura valida perché estetica.


Un confronto interessante è quello tra la biblioteca di Chvyl’ovyj e quella del senatore Pococurante voltairiano. Il senatore ama l’Ariosto e il Tasso, Orazio e Seneca e alcuni libri inglesi “scritti liberamente” (forse un riferimento a "Utopia" di Moro e ai "Viaggi di Gulliver" di Swift), non apprezza Omero, Virgilio e Cicerone e decisamente non gradisce il Paradiso Perduto di Milton, così come gli ottanta volumi miscellanei d’una accademia delle scienze, definiti dal senatore “farragine” e zeppi di “vani sistemi e non solo una cosa utile”. In entrambe le biblioteche c’è la satira di Swift; Orazio e Seneca piacerebbero al neoclassico Mykola Zerov (1893-1937) e vanno bene per Chvyl’ovyj perché fondono la satira con lo stoicismo. I vacui volumi scientifici sono da togliere dallo scaffale di entrambe. Gogol’, Maupassant, Saltykov-Ščedrin sarebbero piaciuti a Voltaire? Se questi sono i classici di Chvyl’ovyj, lui stesso è un classico per Jurij Andruchovyč che, nella sua "Bad Company", lo definisce affettuosamente “Fitil’ov: un russo”. Dopo avere elencato gli “squinternati” protagonisti della letteratura ucraina, conclude: “La letteratura non poteva essere diversa…un seminterrato buio e silenzioso…Buona notte classici, ci sentiamo domani”.


Quando uscirono i pamphlets polemici di Chvyl’ovyj, dallo stile ironico, vivace e acuto (veri e propri testi letterari), alcuni critici dell’epoca parlarono di una “improvvisa ventata di aria fresca in una stanza in cui le finestre erano rimaste chiuse da anni”. “Vivace, ironico e acuto” è anche lo stile della novella “maggioritaria” di Chvyl’ovyj, a mio parere un grande viaggio nella cultura, a cavallo di una giostra, la stessa che l’autore scelse per illustrare la copertina del primo numero della sua "Literaturnyj Jarmarok" (Fiera Letteraria), rivista di stampo allegro - e gogoliano - già nel titolo. Dà gioia pensare che, nonostante tutto, Mykola Chvyl’ovyj ce l’ha fatta.

Maria Cristina Colombo holds a Masters Degree in Psychology. She is currently enrolled as an undergraduate student at the Slavic Department of Milan University

Comments


bottom of page